La civile società

Dopo tre mesi che mi sembrano anni sto rientrando a casa dall’Ucraina.

Come in tutte le esperienze di vita significative, quello che resta sono le persone. Sopra tutte, le ucraine e gli ucraini la cui vita è stata stravolta il 24 Febbraio. La cosiddetta “società civile”, che va dal garzone della fabbrica dismessa che l’ha aperta agli sfollati, all’insegnante di inglese che distribuisce pacchi alimentari, dal tamarro palestrato che gestisce centri con centinaia di persone alle maestre d’asilo che fanno dormire gli anziani nelle classi, dalla coordinatrice della associazione locale che ha visto il suo budget centuplicarsi in un mese, e se lo riesce comunque a gestire, ai camionisti che guidano ancora ogni giorno sotto le bombe verso la linea del fronte per portare gli aiuti umanitari.

Gente che si è rimboccata le maniche e si è reinventata una vita per fare quello che andava fatto, e l’ha fatto bene. Senza clamore né vanagloria. Con umiltà, impegno civile, competenza e sprezzo del pericolo. Gente che ha dato lezioni di intervento umanitario alle Nazioni Unite e alle grandi ONG.

Alcuni ci ringraziano per essere qui ad aiutarli… ma grazie a voi. Grazie a voi!

Scolaretti

La difficoltà più grande con cui mi sono confrontato in Ucraina è la barriera della lingua. E’ molto raro trovare persone che parlino anche solo qualche parola di Inglese, quindi si indica, si scuote la testa, si muovono le mani, si fanno versi ed espressioni facciali. Quando si riesce ci si accaparra un interprete, e si fa un uso smodato di Google Translate, una di quelle cose per cui ti chiedi come facessimo quando non c’era.

E’ stata una difficoltà completamente inaspettata. Non che nei villaggi del Sahel si disquisisse dei massimi sistemi, ma qualche parola di Inglese o Francese aiutava, e nelle città, con professionisti e funzionari, la comunicazione non era un problema. Un’incomunicabilità quasi totale a tutti livelli non l’avevo mai provata, e colleghi con esperienza umanitaria geograficamente più varia della mia sono della stessa opinione.

Perché questa barriera si sente così tanto proprio qui, e perché è così spiazzante per noi cooperanti occidentali? La spiegazione che mi sono dato è semplice ma fa effetto: la quasi totalità dei paesi in cui operiamo nel mondo è stata per un tempo più o meno lungo assoggettata, o perlomeno ha subito l’influenza, di una a scelta tra Regno Unito, Francia, Belgio, Spagna o Portogallo.

Qui nell’Ucraina Orientale no. Pur essendoci culturalmente molto più affine del Bangladesh o del Mozambico, “noi” qui non siamo mai stati. Per la prima volta lavoriamo in un paese che non sentiamo, a torto o a ragione, come “casa nostra”.

Nonostante ci teniamo molto a mostrarci sicuri di noi stessi, qui siamo scolaretti spauriti al primo giorno di scuola. Con il nostro grembiulino brandizzato e la cartella piena di gergo e metodologie che abbiamo applicato dappertutto sempre uguali, guardiamo dal basso all’alto i nostri compagni più grandi, quei volontari improvvisati nati e cresciuti qui che conoscono, capiscono e agiscono meglio di noi, mentre con la manina delle nostre raccolte fondi cerchiamo la manona della mamma Europa, sperando che ci dica che siamo bravi e che ci compri un altro gelato.

Un uomo semplice

Nicolaj è un uomo grosso sulla sessantina con la faccia buona. Mi ricorda vagamente l’ubriacone che all’inizio di Indiana Jones e l’Arca Perduta sfida Marion a chi beve di più (so che ce l’avete presente in tanti). Ha quel sorriso lì, buffo e inoffensivo. Le sue guance rosse denotano che anche il suo consumo di alcol sia paragonabile.

Lavorava in un’azienda che produceva componenti di automobili a Dnipro, ma il padrone se ne è andato il 24 Febbraio ed ora la fabbrica lavora a regime rallentato, anzi quasi non lavora più.

In uno dei complessi della fabbrica, Nicolaj ospita 28 sfollati da Luhansk e Donetsk, tra cui neonati e adolescenti. Ci si mette d’impegno, ma non ha i mezzi per garantire agli ospiti delle condizioni igieniche e di vita lontanamente accettabili. I materassi sono stesi per terra o sui pallet, i bagni e le docce troppo poche, le lavatrici rotte. Gli spazi comuni puzzano e molte finestre sono rotte. Qua e là sui muri ci sono ancora quei bellissimi manifesti di propaganda di epoca sovietica.

Nel cortile, tra i pezzi di ricambio e i macchinari inutilizzati, passeggia un magnifico pavone, probabilmente retaggio di tempi d’oro in cui la proprietà voleva mostrare al pubblico il successo dell’azienda.

Quando ringrazio Nicolaj per quello che sta facendo, mi risponde “Sono un uomo semplice”. Sarà forse il traduttore che l’ha reso così, non so cosa abbia detto in Russo. Ma penso che in effetti Nicolaj è un uomo semplice. Semplicemente un uomo.

Kharkiv

Oggi mentre eravamo a Kharkiv ho sentito la prima esplosione da quando sono arrivato in Ucraina. Poi un’altra. E un’altra. E un’altra. E un’altra. Erano colpi di artiglieria sparati dai russi sulla città dalle colline circostanti.

L’artiglieria non è come i missili, che sono guidati dal GPS. L’artiglieria è sostanzialmente sparare nel mucchio. E infatti le esplosioni di oggi hanno ucciso quattro civili.

Io a Kharkiv ci sono rimasto solo qualche ora. Ora che sono tornato a Dnipro ripenso alle esplosioni, alla casualità della morte e alle persone straordinarie che ho conosciuto.

Persone che da lì non se ne sono mai andate e da tre mesi vivono nella consapevolezza che il prossimo colpo di mortaio potrebbe cadergli in testa. Lavorano ogni giorno in un magazzino a spostare, smistare e spedire beni di prima necessità. Quando gli chiedi come stanno ti guardano, sospirano, dicono che potrebbe andare meglio, e ricominciano a lavorare.

Upside Down

Ci sono due livelli, separati e contrapposti, nelle persone che si incontrano qui a Dnipro, nella parte sicura dell’Ucraina.

C’è il livello superficiale: ragazzi che escono a bere una birra, famiglie che portano a giocare i bambini al parco, cani e padroni di cani, coppie che amoreggiano sulle panchine, vecchietti che giocano a scacchi, professionisti che vanno al lavoro in giacca e cravatta, taxisti scontrosi. Normalità.

E c’è un livello sommerso, che si può intuire anche solo da uno sguardo o da un sospiro, ed emerge non appena inizi a parlarci. Ti rendi conto che non c’è una persona, non una sola, che non abbia un suo caro lontano che non sa se e quando potrà rivedere, un amico, un padre o un figlio al fronte, la propria casa distrutta, una nonna inferma costretta a vivere in un bunker, un lavoro che non c’è più e che forse non tornerà mai. Tristezza, paura e disperazione.

Oppure, nei casi più fortunati, niente di tutto questo: solo una totale e annichilente incertezza sul proprio futuro, in base a come, quando e se questa guerra finirà.

Il Fiordaliso

Prendi un grande centro commerciale nell’hinterland di Milano, tipo il Fiordaliso.

Immaginati che l’Italia sia stata invasa dalla Francia, che Genova sia stata rasa al suolo e che i pochi Genovesi rimasti in città stiano cercando di scappare. Arrivano tutti nel parcheggio del Fiordaliso come possono, chi con i mezzi delle Nazioni Unite, chi in macchina, chi a piedi, per essere registrati e ricevere una prima assistenza. Alcuni di loro hanno arti da amputare e dei chirurghi Milanesi volontari lo fanno nella caffetteria del Fiordaliso riadattata a sala operatoria. Altri ricevono acqua, cibo e indicazioni per andare a stare in un posto sicuro.

I soldati Francesi sono arrivati fino a Pavia, e i Milanesi non sanno se tra una settimana la stessa sorte toccherà anche a loro.

Immagina che tutto questo accada mentre il Fiordaliso resta aperto, con i Milanesi che ci vanno a fare la spesa, dato che il supermercato nonostante tutto continua ad essere perfettamente rifornito.

Questo è il centro di smistamento di Zaporizhzhia oggi, ed è tutto molto spiazzante.

Re:Mariupol

Fino ad oggi quando sentivo parlare della battaglia di Mariupol mi auguravo che finisse il prima possibile. Che i Russi se la prendano e che gli Ucraini se ne facciano una ragione.

Oggi ho incontrato una ONLUS fondata dagli abitanti di Mariupol sfollati a Zaporizhzhia, Sindaco in testa. Accolgono i loro concittadini in fuga, trovano loro una sistemazione tenendoli insieme, e soprattutto preparano il loro ritorno a casa, quando l’esercito Ucraino avrà vinto e la città sarà liberata.

Ben consapevoli che la Mariupol che conoscevano non esiste più, un gruppo di architetti ha fatto un piano per rimetterla in piedi quando la guerra sarà finita: quali edifici pubblici ricostruire e quali no, quanti soldi andranno investiti, quanto tempo ci vorrà. Come si ricreerà un tessuto sociale e una vita comunitaria. Il piano inizia a Gennaio 2023.

Tutte le certezze accumulate in ore di dibattiti televisivi crollate nel tempo di una conversazione.

Sfumature

Le premesse necessarie: la mia visione sull’opinione pubblica ucraina è lungi dall’essere rappresentativa di alcunché. Ho chiacchierato con poche persone qui perché la gente parla molto meno inglese di quanto sperassi. Anche per quelli con cui sono riuscito a discutere, non posso dare per scontato che mi abbiano detto quello che davvero pensano. Come tutte le persone catapultate qui, comprese quelle che descrivono da un piedistallo la fantomatica “opinione pubblica ucraina”, non posso che averne una visione estremamente limitata e distorta.

Premesso tutto questo, la propaganda militarista 24/7 pare aver influenzato molto il comune sentire. Spot televisivi, manifesti, telegiornali, canali telegram e video musicali lasciano il segno (date un occhio a Don’t F@ck with Ukraine e fatevi un’idea). Eppure, ho la netta sensazione che sotto questa scorza di nazionalismo patriottico, machista e militarista, le opinioni delle persone restino molto più sfumate di quelle dei loro governanti. Più di una volta ho sentito dire che l’idea di rinunciare alla sovranità su parti di paese che sono da sempre state contese non sarebbe poi quell’inaccettabile onta per la nazione ucraina che sentiamo ripetere da Zelenski e soci. Che l’idea di riprendere il controllo sulla Crimea è pura propaganda. Che in qualche modo bisognerà per forza trovare un accordo. Che, guarda un po’, quello che conta di più, è ristabilire la pace.

L’impressione da qui, ancora una volta, è che se le decisioni sulla guerra e sulla pace fossero votate a maggioranza dall’intera popolazione, anziché prese a tavolino da una cerchia di potenti guidati da real politik e ciechi interessi nazionali, la guerra la si farebbe molto meno, nonostante la propaganda.

Zaporizhzhia

Chissà perché me la immaginavo sempre come una piccola cittadina, Zaporizhzhia, quando ne sentivo parlare in tv. Un qualche agglomerato di case intorno alla centrale nucleare.

Oggi ci sono stato ed ho scoperto che è il capoluogo della sua regione, una città da un milione di abitanti con una storia di secoli, palazzoni in stile sovietico brutalista e casette che sembrano art nouveau, un centro e una periferia, giardini, piazze con tulipani appena piantati, Mc Donalds, una gigantesca diga che fa sembrare il fiume un mare, mezzi pubblici funzionanti, tante persone che nonostante tutto fanno la loro vita. E una avenue (prospettiva?) lunghissima, sempre dritta seguendo le colline su e giù, che deve avermi colpito così tanto solo perché non ero mai stato in una città ex-sovietica prima d’ora.

Ci sono anche tanti check-point con soldati giovanissimi, alcuni dall’aspetto impaurito, che si preparano alla guerra, torrette, cavalli di frisia, barricate, sacchi di sabbia e pannelli di compensato.

Ah, e non c’è la centrale nucleare. Cioè, la centrale è nella REGIONE di Zaporizhzhia, a parecchi chilometri dalla città. E’ per questo che la centrale può essere in mano ai russi, mentre la città resta per ora saldamente controllata dagli Ucraini.

Domande

Tempo fa ho sentito Francesca Mannocchi fare una domanda semplice e spiazzante ad un ragazzo ucraino che non aveva mai preso un’arma in vita sua, ma che era pronto ad arruolarsi.

Gli chiedeva: “Ok, sei disposto a morire per il tuo paese. Ma sei anche disposto ad uccidere?”

Oggi ho fatto la stessa domanda a uno dei nostri traduttori, un uomo della mia età con una moglie e un figlio, un tipo simpatico e tranquillo. Anche lui, come l’intervistato, ha avuto una reazione strana, ci ha pensato molto e abbiamo cambiato argomento. E’ tornato da me ore dopo.

Mi ha detto che tutti dovremmo vivere in pace e non pensare alla guerra. Che bisognerebbe trovare un modo per mettersi d’accordo. Mi ha anche fatto capire che lui Donbass, Lugansk e Crimea a Putin glieli lascerebbe volentieri. Ma che se i Russi arrivassero fino a casa sua, qui a Dnipro, sarebbe certamente in grado di uccidere un altro essere umano come lui. Perché l’alternativa è tra uccidere o essere ucciso, e vivere in un paese in mano ad un invasore è come essere ucciso.

Ho fatto la stessa domanda, per fortuna puramente ipotetica, a me stesso, ci sto ancora pensando.