Se non lo sapessi non credo che me ne accorgerei.
Nel centro di Lviv c’è lo struscio del tardo pomeriggio in una settimana pre-festiva. Dei ragazzi vanno in skate, due amiche chiacchierano al tavolino di un caffè, una coppia limona appoggiata a un palazzo. Ci sono i centri Apple, le classiche catene di vestiti cheap, i kebabbari, i supermercati con gli scaffali pieni, i rider indisciplinati. Si aspetta ordinatamente alla fermata dell’autobus, si ascolta il punkabbestia stonato che suona la chitarra, si porta in giro il cane. Ci sono uomini, donne, bambini e bambine in proporzione apparentemente normale.
Ma è un po’ che ne sento parlare di questa Lviv, o Leopoli, come abbiamo deciso di chiamarla. Quindi non posso guardarla con gli stessi occhi con cui ieri guardavo Rzeszow, che sta a pochi chilometri da qui, ma al di là della frontiera.
Noto le divise dei soldati e delle soldatesse che punteggiano la folla, alcune con i segni della guerra addosso. I camion militari mischiati al traffico cittadino. Vedo i sacchi di sabbia alle finestre, i cavalli di frisia, una statua della madonna circondata da un’impalcatura protettiva con un grande cartello in Ucraino e Inglese “Pray for Ukraine”. Le facce delle persone, anche quelle apparentemente spensierate, mi sembrano mostrare la stanchezza delle ultime drammatiche notti. Mi chiedo se quel palazzo distrutto fosse ridotto così male già due mesi fa. Mi metto in allerta per la sirena di un’ambulanza.
Vista da Lviv la guerra non è un pugno in un occhio, ma un granellino di sabbia che ci è entrato e non se ne vuole andare.